Every year, on the Sicilian island of Lampedusa, the no-profit organisation Comitato 3 Ottobre organises the commemoration of the 2013 shipwreck as a chance to engage with schools and institutions on the matters of migration, hospitality, and inclusivity. Four days of conferences, workshops, music and other activities involving of students, public figures, NGOs, as well as the people who survived the shipwreck in 2013.
Lampedusa, October 2022           
reportage
Italy, 2022




Il 3 ottobre del 2013, in un naufragio a pochi chilometri dalla costa di Lampedusa, trecentosessantotto persone perdono la vita. Più di centocinquanta vengono salvate dall’intervento di pescatori e civili, in assenza del pronto intervento della guardia costiera. In Italia, da allora, il 3 ottobre si celebra la Giornata della Memoria e dell’Accoglienza.


Non bastano sei giorni per capire un’isola. Forse non basta una vita. Le radici di un’isola corrono profonde fino ai fondali del mare da cui emerge: l’isola è quello, non puoi vederne che la superficie. Il resto rimane sommerso. Non nascosto: le bugie sono cose da continente. In mezzo al mare, i segreti sono tutti lì a dirti: se vuoi sapere, tuffati. Se hai il coraggio, guarda meglio. Guarda anche sott’acqua, guarda anche dove non si respira e tutto sembra alieno e fa paura. Guarda tra le impronte che le navi hanno lasciato là dove navi non dovrebbero mai lasciare impronte.


Ho chiesto a un amico isolano: secondo te cos’hanno in comune tutte le isole? Mi ha risposto che in un’isola ci vai, negli altri posti ci passi. E Lampedusa, allora? Dove da migliaia di anni passano migliaia di persone?




Arriviamo a fine settembre. Siamo in tanti. Abbiamo magliette tutte uguali e camminiamo un po’ confusi per le vie del paese. Non ci conosciamo, il primo giorno, ma ci riconosciamo agli incroci, dentro i bar. Ognuno di noi indossa il motivo per cui è lì. Quel motivo varia di persona in persona - c’è chi a Lampedusa è arrivato, chi ha un parente che l’ha fatto,chi era ospite ed allora torna ogni anno, chi da tutta la vita si graffia col filo spinato dei confini, per sé e per gli altri. Quel motivo pesa, in vari modi, in varie misure, ed è visibile: un’àncora di terra, che fa trascinare il passo dal momento dell’atterraggio fino al giorno in cui insieme la getteremo in mare, sotto forma di fiore. Ma il primo giorno tutto questo è lontano.

In via Roma, unica arteria, per il turista ogni sera arriva il mondo familiare: nei dehor cantano i Dire Straits, i Red Hot Chili Peppers suonano dal palco del ristorante, mentre lui in pantaloncini e camicia colorata fa le vasche fino alla fine della via. Quando finisce via Roma, il turista torna indietro. L’ospite continua, e trova un palco. Sul palco c’è il mondo del non familiare.

Di giorno e di sera, per tre giorni, controluce sul palco della commemorazione danno le spalle al mare persone che vengono dall’altrove, e raccontano, raccontano. Quest’anno li ascoltano 350 studenti da più di 20 Paesi diversi. Così in fondo a via Roma si parla delle figlie e dei figli che non abbiamo saputo accogliere meglio di come ha fatto il mare perché erano del colore sbagliato, ma lungo via Roma sento un accento del nord che racconta di un divano nuovo fatto cambiare perché aveva sbagliato colore. Ed è un esercizio, qui, ricordarsi di non avercela con chi compra divani ma che tutti dovrebbero avere diritto che sia quella, la preoccupazione più grande di cui parlare, passeggiando sulle pietre bianche di via Roma a Lampedusa.

Accanto al palco c’è un Museo che esiste solo qui, il Museo della Fiducia e del Dialogo. Sono in dialogo le foto esposte, parlano fitto oltre i confini del tempo e dello spazio, dagli anni ‘20 al 2018, da Genova alle sponde del fiume Naf, di continente in continente. E la fiducia? La fiducia è in tutte le stampe, in tutti gli oggetti restituiti dal mare prima ancora dei corpi. Un breviario di italiano, un versetto del Corano scritto a mano, il contatto di un parente in Argentina, tutto dice: io credo che andrà meglio. La fiducia è la barca su cui viaggia ciò che ci rende simili in ogni angolo di questa terra stanca: la speranza che le cose possano andare meglio.

La sera parliamo delle visite di F. alla sua famiglia in Marocco e del confine nel deserto che non c'è veramente, che si sposta di duna in duna perché sulla sabbia una linea fissa non si può tracciare, così come non si può tracciare sul mare. Ai polsi abbiamo tutti un braccialetto arancio che dice protect people not borders. E se dov'è casa non lo puoi segnare tramite i posti, cosa ti rimane per capirlo? "Dipende da dove sono le persone". Dove ci sono marocchini, là è il Marocco. Dove ci sono italiani, là è l’Italia. E quanto sarebbe bello se fosse così - ognuno di noi enclave mobile del proprio paese, a portarlo a spasso per il mondo, a sovrapporlo, a intersecarlo, a renderlo presente là dove forse altrimenti non arriverebbe mai, e protetto come lo sono le persone, non come i confini, là dove la difesa è quella del proprio sacro corpo di umano e non di soggetto sotto un regno, sotto uno stato, sotto un altro umano. Col diritto di muoversi dove si vuole.

A Lampedusa c’è una porta, nella punta più a sud dell’isola. È alta e sbiadita dal sole, e quando finalmente ci arriviamo sembra piazzata lì un po’ a caso, calata dall’alto, addirittura storta. È la Porta d’Europa, che a guardarla non potrebbe rappresentare meglio qualsiasi idea di confine: imposto e fuori luogo, come tutte le recinzioni, come tutti i muri. Come le perverse linee dritte che hanno macellato l’Africa in quarti per il buffet dell’imperialismo. La Porta d’Europa non ha serrature: è un arco aperto. Avanti e indietro, la gente la attraversa, si fa una foto. È questa, quindi, una frontiera? Un passaggio che si fa come per gioco? Perché così è facile sentire quant’è stupido che ci sia un di là e che ci sia un di qua, e quant’è stupido che un pezzo di carta possa decidere se il tuo posto sia qui, a capire per esercizio teorico quanto siano sbagliati i confini, o dall’altro lato, a morirci addosso.

Perché poi alla Porta d’Europa le persone sopravvissute al naufragio del 2013 parlano con la voce più chiara e le parole più dirette di qualsiasi politico che li precede. E dicono quello che hanno ripetuto anche ai trecento ragazzi il giorno prima, nell’assemblea al campetto della scuola: voi immaginate il viaggio. Immaginate un viaggio che dura mesi, a volte anni. Immaginate il cammino e il trasporto e quasi sempre la detenzione. Immaginate finalmente la costa e finalmente il passaggio. E immaginate che finisca lì. A poche miglia da questa porta. Perché qualcuno ha fatto di quel gioco una legge. Ha deciso che c’è un protocollo che viene prima delle regole del mare e di quelle della vita. 

Ci sono cose che non si dicono, pensieri che non si fanno ad alta voce, nemmeno lì, alla Porta, il 3 ottobre 2022. Come guarda il mare chi è sopravvissuto ad un naufragio? Chi cerca ancora nelle onde l’ultima traccia di una figlia, di un fratello, per lasciare almeno un fiore, per dire una preghiera? O non lo guarda o lo fissa, e sembra si parlino, lui e il mare, e tu senti di star guardando qualcosa che non hai il diritto di guardare, che il tuo sguardo va distolto, che forse nel tuo voler essere dalla parte giusta hai dimenticato che la base del rispetto non è fare qualcosa ma toglierti dal centro, fare un passo indietro, tacere. Rimuovere l’ingombro del tuo sguardo. Lo impari ogni volta troppo tardi, e a spese degli altri. E non è giusto. Non c’è scusa che regga, neanche quella di una fotocamera in mano.

Quindi non ci sono fotografie delle tre di notte del 3 ottobre, quando in più di cento si cammina fino al memoriale nell’ora del naufragio. L’evento non fa parte di nessun programma. E chi lo sapeva che il vento sulle palme la notte fa il suono delle onde, così vero da sembrare finto, e che non esiste modo giusto di ricordare una tragedia e che non si capisce finché non ci provi in tutti i modi e fallisci lo stesso. C’è qualcosa di profondamente sbagliato nella spettacolarizzazione del dolore, sempre, anche quando è da lì che nascono i fiori ostinati dell’empatia. Quando si piange per sentirsi meno colpevoli, si sente. È un pianto quasi bello da vedere, un pianto da riprendere, da fotografare, da prendere e portare a casa come un souvenir, per sentirsi meglio anche senza aver fatto di meglio. Il pianto della rabbia invece è brutto da guardare, da ascoltare, e quando lo piangi ti inchioda e consuma una parte di te che non può tornare. Da quel pianto non nasce niente, neanche la malerba della resilienza. Il giorno in cui anche quel pianto avrà il rispetto che gli è dovuto, senza sguardi che lo consumano, senza musica a smussarne le spine, senza parole a diluirne il veleno, Lampedusa sarà un posto davvero sicuro. 

Alla fine, la sera del 3 ottobre al santuario non siamo tanti. Una bambina corre tra le sedie pieghevoli, il sole scende, una preghiera sale. La preghiera è in arabo, e la voce dell’imam riempie le grotte lì accanto, restituisce loro qualcosa di antico, che fa parte dell’isola da centinaia di anni. C’è una placca con la storia dell’eremita che le abitava, pronto a celebrare Allah o il dio dei cristiani a seconda di chi approdava in quell’insenatura in cerca di acqua e riposo. Il dio di tutti è stato rifugiato in quelle grotte, stretto tra le mani giunte di chi scappava, di chi migrava, di chi viaggiava. Mi tornano in mente le parole che ho sentito il giorno prima, quando il pescatore Billeci parlava dei lampedusani che se ne sono andati durante la crisi economica: diceva espatriare, non migrare. Tanto è forte la solitudine di quest’isola nel mare, a metà tra i continenti, di tutti e di nessuno insieme, eppure irremovibile nel suo abbraccio di roccia e spiagge per chi arriva. Il pescatore dice: "Perché Lampedusa è accogliente? Ma perché Lampedusa conosce la migrazione”. 

E che altro puoi aspettarti da chi vive una vita a bagnarsi di onde che vengono da ogni parte del mare? Il viaggio non è solo un diritto, è una chiamata. E anche se non ti muovi mai - anche se nasci, cresci e muori sull’isola - il viaggio troverà te. Con le vite degli altri, ti raggiungerà. In pellegrinaggio al tuo migrare mancato arriveranno storie da ogni parte del mondo. Questa è la storia di Lampedusa, isola ferma in mezzo al mare ma che viaggia e viaggia, tatuata nel polso di una ragazza che mi sorride quando le chiedo di fare una foto, stampata nei documenti di chi ne ha fatto un punto di partenza verso la vita che ha creduto possibile, che ha rincorso sulla sabbia e sul mare, e che ora è sua, vittoria su tutto, per ognuno di noi.

Così quando S. di fronte agli studenti non parla del suo naufragio ma del pianeta che brucia e che questo riguarda tutti, dai ghiacciai vicino a dove abita ora fino alle spiagge di questo sud, è come se con le sue parole prosciugasse questo bastardo benedetto mare per mostrare che tutta la terra è una, che ogni isola è collegata alla terraferma da sotto, che non c’è posto che sia solo, che non c’è storia che non ci riguardi. Che messi a nudo non ci sono tra noi salvati e salvatori, ma solo modi di salvarci a vicenda, o di farci del male da soli nel ferire gli altri. Così Lampedusa è una sfida, ancora lontana da quello che è ora: che si inventi un’idea di cura che sia simmetrica, senza piedistalli né pietismo, che si comporti come fa il mare quando ci cadi - senza guardare carte né forme né età né colori, così il diritto alla vita, al movimento, alla felicità, non ha clausole, non ha criteri. 

Che non sia un diritto che si debba guadagnare; non è la definizione di diritto, quella. Né col merito di una laurea o col pegno di una storia tragica da raccontare in prima serata, né con la privacy violata dell’essere una madre in disperazione né con la doppia violenza di aver perso un bambino e vedere la sua foto su tutti i giornali. Né risorse né opportunità né arricchimento né niente che si possa far entrare solo perché conviene, ma semplicemente in virtù di quel diritto sacro alla vita. La storia è sempre quella, anche la notte del 3 ottobre 2013. 

Io non sono che il finale diverso di questa stessa storia. 1946, ventidue giorni in mare, un’altra nave, un altro porto. Un altro bambino che imparava un’altra lingua straniera con altri volti diffidenti che pensavano non ce l’avrebbe fatta mai. Senza di lui, questi occhi non avrebbero mai visto Lampedusa. Ai suoi occhi io devo il mio racconto di quest’isola, e al suo racconto devo il seguito del mio: che parli di alleanza, di complicità, dell’umanità che trova porto dentro ognuno di noi, remando controcorrente alle storture del mondo che trova quando nasce. Perché quel bambino, nel 1946, dopo un anno grazie ad un accento preso alla perfezione era indistinguibile dagli altri suoi coetanei nati lì, mentre una persona nera non importa quanto bene imparerà la lingua: indistinguibile nel 2022 non lo sarà mai. Se c’è una cosa che riporto da Lampedusa allora che sia questa: l’accoglienza non avviene sull’isola, inizia sull’isola. E torna a casa, a continuare, col lavoro di tutti noi. Fuori e dentro di noi. 





















Lampedusa, ottobre 2022
(grazie.)







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